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L’Europa sociale e la riduzione del welfare in Italia di Maurizio Ballistreri

L’Europa sociale e la riduzione del welfare in Italia di Maurizio Ballistreri

Le attuali tendenze della politica europea e mondiale, vengono rappresentate come un mix
di populismo e plebiscitarismo, richiamati in tutta la loro forza evocativa. Nel Novecento, le
spinte populistiche sono sempre state in simbiosi con il leaderismo, espressive cioè, di un
rapporto diretto tra un capo e le masse, fondato sull’idea schmittiana che la vera
legittimazione per l’esercizio del potere politico sia quella che deriva dal consenso diretto e
non mediato dalle istituzioni rappresentative. E sarà per l’incalzare dei populismi nazionalisti
che stanno scuotendo l’Unione europea, che danno voce ai senza-lavoro ma anche ai ceti
medi impoveriti da una crisi economica e sociale quasi decennale attribuita in larga parte
all’austerity imposta da Frau Merkel, nell’assenza delle forze politiche socialdemocratiche e
riformiste, ma finalmente l’Ue sembra decisa a discutere della “frigidità sociale” che ne ha
segnato la genesi e l’esistenza sino adesso.
Una frigidità sui temi sociali che ha provocato una vera e propria antinomia con la struttura
sociale ed economica degli Stati fondatori della Comunità Economica Europea, che hanno
costituzionalizzato, con tecniche giuridiche non omologhe, il Welfare State, prevedendo
ampi cataloghi di diritti sociali a “prestazione positiva”, ovvero “clausole generali di Stato
sociale” affiancate al riconoscimento dei soli diritti sociali ad immediata azionabilità,
comunque finalizzate a svolgere la fondamentale funzione normativa di garanzia
dell’integrazione delle fasce sociali più deboli. Per dirla con Habermas: “nella figura della
democrazia di massa rappresentata dallo Stato sociale, la forma economica altamente
produttiva del capitalismo viene per la prima volta imbrigliata socialmente e più o meno
felicemente armonizzata con l’autocomprensione normativa degli Stati democratici
costituzionali”.
A Göteborg in Svezia i 28 capi di stato e premier dei paesi aderenti all’Ue infatti, in un
recente vertice hanno discusso di “Europa sociale”.
Certo, il risultato del summit tratteggia solo i contorni di un’iniziativa concreta per rilanciare
i diritti sociale in Ue, con un memorandum di venti punti diviso in tre parti: pari opportunità
per l’accesso al mercato del lavoro; condizioni di lavoro eque; tutela e inserimento sociale.
In questi punti trovano accoglienza temi quali la parità, la lotta contro i working poors, il
nuovo welfare promozionale e il diritto all’abitazione, mentre una delle proposte
fondamentali è costituita dal salario minimo in ogni paese dell’Unione, anche se esso è
ampiamente diffuso, considerato che solo sei Stati su 28, tra cui l’Italia, non hanno questo
strumento. Lo scopo è quello di contrastare la competitività dei singoli paesi perseguita
attraverso il dumping sociale, che favorisce anche le delocalizzazioni, ma sarebbe illusorio
pensare ad un allineamento delle retribuzioni dei singoli paesi verso l’alto: si pensi che i
minimi salariali per legge oscillano dai 230 euro della Bulgaria sino ai 2mila euro del
Lussemburgo al mese!
Il dibattito, che ha definito in una prospettiva decennale il processo di armonizzazione
sociale, è stato segnato da posizioni contrastanti, assente la Cancelliera tedesca, con la
Confindustria europea ovviamente contraria, con l’astratto mantra della “competitività su
scala internazionale” e i sindacati europei della Ces genericamente favorevoli, mentre
mugugni sono venuti dai paesi dell’Europa dell’Est, che temono di perdere la sfida delle loro
economie, in larga parte basata sul basso costo del lavoro e su inadeguati sistemi di
protezione sociale.
E l’Italia? Il presidente del Consiglio Gentiloni è apparso tra i più convinti sostenitori
dell’”Europa sociale”. Peccato che proprio nelle stesse ore il governo stia implementando
l’ultima parte della cosiddetta “Riforma-Fornero” sulle pensioni, con un confronto più virtuale
che reale con i sindacati, che, dal canto loro, procedono separati.
Dottor Jekill e Mister Hyde di Stevenson dunque, per Gentiloni? No! Tipica furbizia
all’italiana, di andeottiana memoria!
Il risultato sarà, per dirla con Lester Thurow, “a somma zero”, con l’aumento per i futuri
pensionati dal 2019 dell’età pensionabile a 67 anni, qualche allargamento dei lavori usuranti
e con due elementi strutturali: la cancellazione di ogni funzione di interlocuzione, già il
dialogo sociale europeo, dei sindacati e l’ulteriore riduzione del Welfare in Italia.

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