In età remote il tiglio era simbolo di fertilità e femminilità, sacro a divinità misteriose. In lotta contro l’inquinamento, il gelo, la siccità, esso era scelto per donare le sue fronde all’asettica geometria dei viali urbani e al sorriso dei parchi pubblici. Era un albero guardiano, protettore di case e capanne, una divinità dai rami che si stendevano sui giudizi umani e all’ombra dei quali, intensi di profumo, non si poteva mentire, e la cui dolcezza era in grado di mitigare sentenze troppo severe. E’ infine in tiglio che si trasforma l’oceanina Filira, occultandosi nella forma vegetale, disperata per aver generato un bimbo mostruoso dalla duplice natura, il centauro Chirone, così come Filomene e Bauci, che avevano dato ospitalità a misteriose divinità, avrebbero ottenuto di morire contemporaneamente, e sarebbero stati trasformati in alberi, Filomene in quercia e Bauci in tiglio. Anche nella Canzone dei Nibelunghi Sigfrido, partito alla ricerca di un favoloso tesoro custodito da un terribile drago, lo uccide e si bagna del suo sangue per acquistare l’invulnerabilità, tranne che in un punto tra le scapole, dove era caduta una foglia di tiglio. Ed è al profumo di quest’albero frondoso che Giuseppe Ruggeri dedica il suo racconto, definendo “costante e ubiquitario” nella sua città un odore che smorza e addolcisce la “serrata geometria dell’asfalto e del cemento”.
Il protagonista del racconto, il giornalista Stenio Romano, appare impegnato a sorseggiare un caffé al bar, ripercorrendo mentalmente il programma della mattinata, compreso il sopralluogo alla fortezza dalla pianta a stella e dalla “forma di falce”, lieve come “un uccello con le ali librate in volo” e quasi sempre chiusa per lavori di manutenzione. Risalente al XVI secolo, era stata costruita ai fini del controllo della città e coinvolta in numerosi eventi bellici, senza esser mai espugnata. Aveva comunque subito notevoli danni, anche a causa del terremoto del 1908. Emerge chiaramente un quadro storico che il narratore rinunzia a delineare, lasciando senza nome una città che è facilmente identificabile. Gli si affianca immediatamente Francesco Pitti, “antiquario e archeologo per passione”, il cui esercizio “era ospitato a piano terra di un palazzo costruito subito dopo il grande sisma, che un secolo prima aveva raso al suolo la città”. E’ probabile che l’antiquario sia un personaggio storico, quel Franz Riccobono cui la dedica del romanzo attribuisce il merito di aver riportato alla luce “con mani amorevoli e cuore di guerriero” i resti della città sepolta. Generosamente impegnato nell’affascinante terreno delle tradizioni popolari e della storia del territorio, Riccobono, recentemente scomparso, aveva a suo tempo avviato il recupero della Real Cittadella di Messina, sovente chiusa per lavori di manutenzione e per il quale restauro la Regione Siciliana aveva stanziato un adeguato finanziamento; Riccobono aveva anche organizzato una mostra con alcune stampe provenienti dalla sua collezione riguardante i monumenti arabo-normanni in Sicilia.
Ancor giovane, Pitti aveva inoltre affrontato per la prima volta l’”intero camminamento sotterraneo” della città insieme a un gruppo di esploratori appassionati, tra cui l’architetto Pasquale Numa, “con il quale aveva condiviso numerose sorprendenti scoperte che avevano rivelato aspetti del passato della città sconosciuti perfino ai più paludati accademici locali”. Ed è proprio Numa a spiegare a Romano come il castello, i cui vani erano immersi in un buio pauroso, avesse un’età veneranda; ma fuori da quelle mura segnate da lunghe strie di muffa palpitava una tarda primavera, preludio di un’estate intessuta di una trama sottile di “aromi e umori streganti”.
Respirando a pieni polmoni quella stagione che spargeva pollini e semenze di fiori, Romano è aggredito dai ricordi; da qui il suo articolo sui tigli, dal linguaggio scientifico, che parla di tronchi, cortecce, foglie, fiori, petali, corolle, pistilli, rigorosamente tecnico, che fa saltare i nervi di Massimo Gui, il caporedattore che non si aspettava un trattato di botanica. Affermando ironicamente che il tiglio era uno dei simboli della città e meritava tutto l’approfondimento possibile, Romano aveva trascurato che l’associazione ambientalistica fosse entrata in polemica con coloro che avevano abbattuto qualcuno di quegli alberi in prossimità dell’ area di costruzione dell’ennesimo nuovo complesso edilizio.
Da qui la rievocazione degli anni giovanili, quando Romano era solito passeggiare, solo o con qualche amico, affascinato dal fitto fogliame di quelle piante che si ergevano snelle e flessuose da ampie e squadrate aiuole scavate nei marciapiedi. Tra quegli amici, Numa si offre in contemplazione del tramonto che veniva lentamente “rivestendosi del soffice abito della sera”. Ma per Romano la natura era intesa come una dimensione incontaminata, percepibile soprattutto nella visione di quel “braccio di mare blu intenso” che divideva dal continente la sua città, circondata da una verde cintura di colline punteggiate da piccoli e raccolti borghi che guarnivano la costa. Anche lo Stretto è senza nome, ma “l’ acre odore di salsedine che ne emanava” rendeva sempre più forte il suo legame di appartenenza al luogo dove era nato. Ed è sulla riva di quel luogo mitico che appare un anziano pescatore, dal volto rugoso e cotto dal sole, che porge una “cartata” di gamberetti freschissimi, luccicante di “saettanti riflessi bianco rosacei”, al sostituto procuratore Mario Prochili, assiduo frequentatore del lungomare nord, nato altrove e piovuto in un’ isola che di roccioso aveva assai poco. Anche lui è un personaggio disegnato in funzione di un itinerario, quello della pista ciclabile che la città aveva accolto con “spietata reticenza”, utilizzandola per passeggiarvi o corrervi sopra, fingendo di ignorare che il transito in quella strettoia dal color mattone era consentito solo alle due ruote.
Tornando a Francesco Pitti, il narratore ne rievoca la giovanile discesa nelle viscere della città attraverso la botola che si apriva ai piedi della cinquecentesca Fontana del Montorsoli, a cui il Senato Messinese aveva commissionato negli anni 1547-48 una struttura di pubblica utilità. Indicato come la “Fontana dei Fiumi”, il monumento rimane comunque identificabile, ed è quasi preludio al macabro rinvenimento, avvenuto durante un sopraluogo ai ruderi dell’ antica cittadella, di un cadavere misterioso cadavere decomposto, occultato da un fitto tappeto d’ erba secca, che “non voleva saperne di mostrargli le sue spente nudità”. Da qui gli incubi dell’archeologo che, nelle brevi pause di sonno, percepiva cimiteri le cui tombe erano spettrali monumenti, busti d’altre epoche, angeli tristi nascosti da siepi di bossi, lapidi annerite dal tempo, cappelle squarciate da vetrate massicce. Eppure perfino in quel luogo di morte era percepibile la primavera, e anche un remoto passato poteva tornare.
Il percorso che si snoda nei sotterranei della città è scandito negli incubi notturni di Stenio Romano, e si arresta ai cancelli di un cimitero; la muta città dei morti si dilata come una distesa senza limiti, il bianco “accecante” dei cui avelli è macchiato dal verde cupo di una folta vegetazione. E’ infine l’energia che lo sorregge a dissolversi davanti a una lapide annerita dal tempo su cui si leggeva ancora il suo nome. Quando si desta, sottraendosi a quell’incubo, avverte la necessità di avviarsi a piedi verso la fortezza, perché “c’era qualcosa che non gli quadrava e voleva venirne a capo”. Ritorna l’immagine di un antico edificio dalle segrete umide, testimone immobile di una storia dimenticata, simile ormai a un fantoccio posto a difesa di corvi voraci.
Le segrete, attraversate da lunghi e tortuosi corridoi che si snodano in un ventre oscuro, simili alle radici di un albero ormai avvizzito ma ancora vigoroso, collegano il Forte ai punti strategici dell’antica città, come il palazzo senatorio, la cittadella fortificata, il porto. Romano amava viaggiare sui vagoni che sfrecciavano attraverso la trama “smagliata” del centro urbano, le antiche mura sventrate dal macello edilizio, dal dilatarsi delle piazze anonime, dalle strade crepate ricoperte dal velo d’ asfalto disteso sull’ originario basolato.
Pasquale Numa, che avvertiva un forte debito di riconoscenza verso i castelli, è sostanzialmente uno storico prestato all’architettura; per lui l’imponente fortilizio, che era stato costruito a difesa dai cannoneggiamenti nemici, simboleggiava ancora l’incrollabile resistenza alle flotte che avevano tentato di violare il cuore della città antica, cinta dai potenti contrafforti che si snodavano da un estremo all’ altra della Palazzata.
Viene infine ricordata la seconda fontana realizzata dal Montorsoli nel 1557, quel Nettuno che offre alla città le ricchezze del mare, copia ottocentesca dell’ originale custodito nel Museo regionale di Messina, riconducibile alla leggenda di Lu Gialanti Pisci, riportata dal Pitré, eseguito da Gregorio Zappalà, morto sotto le macerie del terremoto del 1908. Il dio brandisce il suo temibile tridente e tiene incatenate ai suoi piedi Scilla e Cariddi, chiara allegoria delle energie fisiche e morali della città. Infatti la leggenda narra del gigante che sarebbe riuscito ad incatenare le sirene, consegnandole piangenti ai messinesi, che lo avrebbero ringraziato costruendo una memore statua. Pasquale Numa è attratto dalla bellezza di quella statua, nuda divinità che si ergeva a placare il ruggito del mare e da tempo in stato di colpevole abbandono. Ma è Francesco Pitti a cercare rifugio nel suo studio, mentre Mario Prochili rimane chiuso nella propria sfera giuridica, risolvendo il suo animo in uno sterminato cimitero, dove era solo possibile leggere lapidi che ricordavano crimini efferati. Ma è una città a emergere ora dalle acque, simile a un cadavere spinto dai flutti sugli scogli che lo sfigurano sino a renderlo irriconoscibile, quasi un osso senza midollo, una scia di nebbia sospesa nel tempo, non riconducibile a un’epoca, sradicata dalle radici.
Ma la città intravista è un cadavere non ancora ripescato, che giace ancora sottoterra, ed è possibile calarsi in una vischiosa oscurità solo attraverso la botola i cui artigli erano penetrati nel bianco pavimento in pietra della grande Fontana dei Fiumi: Francesco Pitti, Pasquale Numa e Stenio Romano penetrano così in una città reale, i cui sospiri provengono da oscure cavità rocciose. Era la città del pianto versato lungo le rive dei secoli, rivelata da una torcia dalla luce tremula, contemplata tra realtà ed incubo, brulicante di spettri che riemergevano dalle nebbie del tempo. Ma è soprattutto il castello a stagliarsi, dai maestosi contrafforti che affondavano come artigli sui fianchi della montagna, immobile, maestoso e intangibile. E’ allora percepibile l’odore inconfondibile dei tigli, che rinnova le memorie di lunghi viali, di vegetazione selvaggia, di colline rese vive da un cielo primaverile, di una natura che alimenta ogni pianta.
Infine dalle viscide tenebre del sottosuolo si emerge alla luce del viale illustre per storia ed architettura, la cui posizione sembra unire il mare alle colline. Osannato dalla folla, il sacro fercolo della Vara, uscito dalla Cattedrale, appare preceduto da centinaia di ceri accesi, mentre si sollevano sino al cielo invocazioni e preghiere, e i suoi devoti trasportatori che non si curano dell’afa dell’ estate affrontano la spettacolare e pericolosa curva a gomito prima di immettersi nella perpendicolare di raccordo con la chiesa Madre. E’ rievocata la più importante festa patronale, la festa di una comunità che è venuta sempre più visibilmente rarefarsi, perdendosi nei fumi di un quieto vivere immemore. Ma l’immagine della città distesa tra le pendici e il porto ricurvo custode di antichi miti sopravvive, poiché è sempre stata, nonostante tutto, “la bellezza a fare la storia”.
Ma Stenio Romano, Pasquale Numa e Francesco Pitti e Mario Prochili sono infine chiamati a chiudere il racconto, addentrandosi nei sotterranei della città, la cui oscurità suscita una struggente malinconia. Un luogo silenzioso, brulicante di fantasmi e di mummie che li fissavano immemori, era stato sottratto al tempo, che in una città sotterranea non aveva più ragione di scorrere. Anche la memoria veniva inesorabilmente offuscandosi, mentre si vanificava la distinzione tra la fortificazione sotterranea e quella di superficie, essendo la prima complementare alla seconda nella politica militare e della tutela del bene pubblico.
Ma lo spaventevole mondo sotterraneo evoca mostri che Stenio Romano tenta di esorcizzare contemplando i tigli i cui lunghi filari veicolano un profumo intenso attraverso rami la cui fioritura è impollinata dalle farfalle. Infine i protagonisti del racconto si ritrovano insieme, dirigendosi verso le segrete del Forte, attraversando cunicoli che vanno sempre più restringendosi, smarriti nei meandri di una storia senza tempo, ed è una violenta tempesta a chiudere il racconto, gonfiando i torrenti, radendo al suolo le abitazioni, infierendo sulle colline, sugli alberi. Collassano le caverne sotterranee, si estingue la memoria della città.
Ma quella città, distrutta da un apocalittico terremoto, ritorna alla vita; dei quattro protagonisti del romanzo, che alle prime luci si erano avventurati nelle fetide gallerie del sottosuolo, non si sa più nulla. Una gigantesca frana sotterranea li travolge. Rimane solo il profumo che sale al cielo dai lunghi filari di tigli, simbolo di fratellanza, di vita che risorge dalle macerie.
Prof. Cosimo Cucinotta
Già Ordinario Letteratura Italiana Contemporanea
Università di Messina