“Trattativa Stato-Mafia: il fatto c’è ma non si può condannare” di Patrizia Zangla
È l’ultimo atto, si conclude in modo tristemente amaro e scandalosamente prevedibile la lunga storia processuale della Trattativa Stato-Mafia.
La sentenza della Cassazione pone il suo sigillo sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra, respingendo le richieste della procura generale, confermando la ricostruzione della corte d’Assise d’Appello di Palermo.
La sentenza della Suprema corte (del 27 aprile 2023) è di assoluzione: assolti i carabinieri; derubricato il reato dei padrini ovvero riqualificato da “commesso” in “tentato”, vale a dire essi hanno tentato di minacciare lo Stato per mezzo di stragi, fatto che consente di dichiarare la prescrizione in capo ai mafiosi; assolto il fondatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri, dall’accusa di aver trasmesso la minaccia mafiosa al Governo di Silvio Berlusconi.
Necessario il richiamo al passato.
In primo grado erano stati condannati gli alti ufficiali del R.O.S. dei carabinieri, Mario Mori, Antonio Subranni, Giuseppe De Donno (Mori e Subranni a 12 anni, De Donno a 8 anni) che, con la sentenza d’appello (del 23 settembre 2021) sono stati assolti e che ora sono definitivamente giudicati non colpevoli perché “il fatto non costituisce reato”, vale a dire esiste, ma non è reato.
Quale fatto non è reato? Non è reato la violenza e la minaccia a un corpo politico dello Stato.
Nello specifico, gli alti ufficiali indicati sono assolti dall’accusa di aver trasmesso ai vertici delle istituzioni –ci si riferisce ai vertici del Governo Amato, Ciampi, Berlusconi – la minaccia di Cosa Nostra che avrebbe dovuto consumarsi per mezzo di stragi e omicidi se non vi fosse stato un alleggerimento delle condizioni carcerarie dei mafiosi detenuti, questa la contropartita della loro richiesta.
Secondo i supremi giudici, la comunicazione al Governo del “papello”- la lista delle richieste avanzate dal capo dei capi, Totò Riina, in cambio della fine delle stragi- da parte di Mori e De Donno e per estensione di Subranni, non costituisce reato perché manca il dolo, ne consegue che la condotta dei mafiosi assume il carattere di “una minaccia tentata”. In questi termini, la decisione della Cassazione ha ritenuto di dover riqualificare il reato contestato a Leoluca Bagarella e Antonino Cinà, rispettivamente cognato e medico del capo dei capi Totò Riina. Proprio Cinà era l’incaricato di svolgere la funzione di “postino”. Dalla riqualificazione del reato deriva la prescrizione delle condanne emesse in secondo grado (27 anni per Bagarella e 12 anni per Cinà).
Questi i fatti.
Secondo Antonio Ingroia, ex magistrato, la sentenza della Cassazione ha un “sapore decisamente amaro e simbolicamente pericoloso”.
Come di rito, ribadiamo che bisogna attendere le motivazioni, tuttavia, si può tentare di comprendere una sentenza che appare ossimorica: da un lato riconosce una tentata minaccia- implicante in sé un principio di trattativa esistente- dall’altro assolve i protagonisti della trattativa: cioè assolve gli uomini dello Stato per aver commesso il fatto senza dolo, assolve i mafiosi ma non li proscioglie, ciò significa che asserisce che il fatto è accaduto: che la minaccia allo Stato è avvenuta. Perché se il fatto non esistesse, la Corte avrebbe usato l’altra formula prevista dal codice penale: “il fatto non sussiste”.
In conclusione, la sentenza della Suprema corte ha accertato che gli ambasciatori della minaccia allo Stato sono stati gli ufficiali dei carabinieri, ma non sono condannabili perché hanno commesso il fatto-reato senza coscienza e volontà.
Precedenti sentenze riconoscono la Trattativa Stato-Mafia, di cui però al momento nessuno ne risponde penalmente.
Lo Stato dunque si è autoassolto. In questi termini, il risultato della Cassazione era prevedibile. Ancora una volta, questa sentenza rammenta che questo è un racconto drammatico e buio della storia della Repubblica degli anni dal 1992 al 1994.
Una storia drammatica, oscura e pericolosa che non approda alla verità, in cui appare che la verità giudiziaria e quella storica hanno prospettive e finalità diverse.
Non è trascurabile che la sentenza di primo grado abbia rappresentato un lavoro lungo, impegnativo e laborioso racchiuso in oltre 5.200 pagine di verbali e intercettazioni e di una articolata documentazione. Il lavoro di giudici togati e di giudici popolari che avevano seguito un processo lunghissimo e complicato, quello appunto della Trattativa Stato-Mafia, approdando a una verità scandalosamente pericolosa come trova riscontro nelle motivazioni.
L’attuale sentenza della Cassazione ha dunque il sapore della sconfitta, consegna e archivia una storia incredibilmente amara perché storia di stragi e di “eroi”, termine che mai come in questa fase del nostro tempo è giusto riferire a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, uomini dello Stato lasciati soli a morire da eroi, e ai tanti altri che non nominiamo ma che hanno avuto un peso specifico in questa storia di poteri dello Stato perversi che hanno scelto di combattere ma non di sconfiggere Cosa Nostra.
La verità del Potere esclude oggi gli italiani che non sapranno mai la verità, perché la Trattativa Stato-Mafia ha assunto la connotazione di una guerra di confine, di una guerra sporca in cui c’erano dentro anche altri uomini dello Stato, ma lo Stato ha dovuto intervenire per salvarli perché essi hanno agito per lo Stato.
Ipocritamente la politica si è girata dall’altra parte e le verità indicibili restano impenetrabili e imperscrutabili ai più.