“Liberazione 2023: la radice unificante antifascista” di Patrizia Zangla
Naturalmente le cose sfumano, talora perdono di significato o si obliano, qui si insinuano i molteplici tentativi di bieco revisionismo, di rovescismo storiografico e, in particolare, di assimilazione delle distinzioni relative i fronti opposti della guerra civile che ha insanguinato l’Italia dal 1943.
Tentativi mossi dal proposito di condurre all’equivalenza tra lotta partigiana e lotta repubblichina o, in altri casi, gli stessi muovono a condurre a relativizzare ciascuna lotta in sé, come riscontrabile nelle disamine delle differenti prospettive storiche. La prima prospettiva, nata a ridosso dei fatti nell’immediato secondo dopoguerra, anche supportata da valutazioni giustificazioniste, ha utilizzato paradigmi agiografici e celebrativi, la seconda, nata in quest’ultimo quindicennio volontariamente revisionista. Entrambe le prospettive risultano inadeguate a chiarire la complessità di questa intricata lotta da intendersi nei suoi plurimi significati di guerra di Liberazione dall’occupante nazista, finalizzata all’affermazione di un nuovo assetto politico, di guerra di classe tra socialismo e capitalismo e, in particolare, di guerra civile fra fascisti e antifascisti.
È in atto un’operazione storiografica revisionista accentuatasi con il Governo Meloni rappresentata da più uscite infelici di ministri come Lollobrigida con le sue aberranti e razziste (e non solo ignoranti) considerazioni sulla “sostituzione etnica”, come il nostalgico presidente del senato La Russa nella sua antistorica analisi dell’attentato partigiano di via Rasella e con altre similari fino all’ultima risibile dichiarazione che “nella Costituzione non c’è alcun riferimento all’antifascismo” e per finire con la colpevole reticenza della presidente Meloni che si ostina a non voler riconoscere il valore comune dell’antifascismo.
Un’operazione mossa dal fine di minimizzare la feroce e corrotta dittatura fascista e a valorizzare figure oggettivamente compromesse del passato missino (come Almirante, Rauti etc.), parimenti tesa a indistinguere il carattere della guerra civile italiana, ledendo la coscienza etica e civica nazionale. Un’operazione molto apprezzata da chi vuole leggere la Storia alla luce di facili luoghi comuni che si sono affiancati quasi in parallelo allo svolgimento di quei fatti. Stereotipi e cliché tuttora erroneamente ritenuti certezze storiche e etico-politiche, che hanno diffuso un paradosso nel modo di interpretare questa storia in una logica semplificante che volutamente lascia terreno fertile ai fraintendimenti alimentati dall’attuale spinta nazionalista, sovranista e suprematista bianca.
Il valore storico-civico della Resistenza
Necessario tornare alla storia di quegli anni caratterizzati dal regime agonizzante che ha il suo perno nella precaria Repubblica di Salò -«non l’epitome ma l’epifenomeno del fascismo»- e dalla fase cruciale e conclusiva del conflitto mondiale.
Il richiamo alla peculiarità storica congiunturale è ineludibile per chiarificare il triennio 1943- 1945 in cui il Paese è segnato dalla guerra civile che ha lasciato fratture, strascichi, riverberi. Dalla guerra civile sono nati il MSI, il neo PCI, le dialettiche esasperate che hanno trasbordato da una dialettica politica corretta a contrapposizioni apre e sanguinose extraparlamentari che hanno condotto alla lotta armata eversiva degli anni ’70-‘80.
Essa ha posto la base dell’attuale richiesta di conciliazione fra le parti che cela insidie perché tende a far smarrire la necessaria trama storica e a raggiungere l’attenuazione dei fatti o la loro generalizzazione, tendenze che sono divenute oggi un marchio, un vessillo puntualmente riproposte con la stessa liturgia dal politico di estrema destra. È bene chiarire che non va temuta la comparazione delle differenti posizioni perché la comparazione è in sé carattere della storiografia, va invece fortemente temuta l’indistinzione poiché la Resistenza non è un evento aspecifico, ma una lotta che ha messo in campo valori contrapposti in cui il fine, come la motivazione pregressa, erano opposti: guerriglia contro obbedienza e rinnovamento contro continuità.
La guerra resistenziale: irregolare e atipica
Dal 1943 il nostro Paese è stato teatro di una guerra irregolare, combattuta tra reti clandestine e da unità armate, da un esercito irregolare anche reclutato per caso, che ha usato armi improprie come l’astuzia, la paura, il coraggio.
Quante piccole storie di passioni e di emozioni ci ha lasciato. Racconti di donne, uomini, bambini, vecchi, storie italiane di Resistenza -chi può le legga-. Sono storie per alcuni aspetti epiche, “eroiche”; il concetto di eroismo è controverso, ma l’eroe resistenziale, al maschile e al femminile, va inteso non in senso classico come un semidio ma come una persona appassionata che ha vestito inconsapevolmente questo ruolo (per approfondimento 1943-1945: l’Italia in camicia nera. Storia e costume dall’ Italia fascista alla Resistenza, Patrizia Zangla, Leone Editore Milano).
Una guerra imprevedibile, insinuatasi ovunque, in luoghi inusuali, sotto casa e in strada; e soprattutto in montagna, connotazione paradigmatica di questa lotta, come, fra gli altri, ci hanno raccontato Marco Rigoni Stern e Giorgio Bocca.
Le stime precise di questa guerra resistenziale sono inadeguate come le fonti narrative, perché volontariamente i partigiani avevano interrotto le relazioni dirette e epistolari con i propri cari, ad eccezione delle lettere dal carcere dei partigiani condannati a morte in attesa di fucilazione come chiarisce Franzinelli, curatore delle Ultime lettere dei condannati a morte e di deportati della Resistenza 1943-1945.
Sono lettere angoscianti di chi avverte che la vita scivola via irrimediabilmente. L’operaio comunista Antonio Strani, riconosciuto dirigente partigiano, è condotto a Trieste a San Saba, campo di sterminio, prima dell’esecuzione scrive alla madre:
«Divento pazzo, fucilano ogni giorno. Sono impazziti. Mamma cara perdonami se ti ho fatto soffrire, chiedo perdono alla moglie e alla mia cara bambina. Che Iddio vi benedica tutti, sono pazzo non ne posso più e non mi lasciano vedervi per l’ultima volta».
Era già accaduto nella campagna di Russia in cui si scriveva per sopravvivere, mentre la morte alitava sul collo, lo racconta Rigoni Stern: «Marangoni mi guardava, capiva tutto e taceva. E ora che anche Marangoni è morto, un alpino come tanti. Un ragazzo era, anzi un bambino. Rideva sempre, e quando riceveva posta mi mostrava la lettera agitandola in alto. È la morosa, diceva».
La Liberazione ha dei costi alti in termini di vite umane, tante le persone uccise per ritorsione dai nazisti, tante fucilazioni di massa, le stragi e i massacri di interi paesi, perpetrate dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945. Massacri di donne, vecchi, bambini che, pietrificati dal terrore, si stringono alle madri, uccisi a colpi di mitraglia nei cortili delle case, nella piazza del paese e sin dentro le chiese. L’elenco degli eccidi nazifascisti sui civili è lungo e tratteggia l’intera penisola.
Una guerra casuale e dagli esiti inaspettati, che prepara assalti -come nel caso dell’attentato di via Rasella- , imboscate, sabotaggi e rapida si dilegua lasciando la popolazione inerme esposta a ritorsioni nazifasciste e a violente rappresaglie.
Convinta e radicata nel territorio da cui trae aiuto completo, ma anche attendista, ‘all’italiana’, perché non tutti accolgono gli appelli del fronte combattente che si identifica con quello partigiano.
Una guerra in cui scorgere una connotazione omogenea per classe e fasce di età, senza un preminente orientamento ideologico, in alcune aree centrali dell’Italia risulta più presente quello comunista, in altre è evidente la compagine femminile malgrado poco riconosciuta per il suo fattivo contributo alla storia della Resistenza. Tante di quelle donne, giovani o meno, protagoniste di quei giorni come staffette partigiane o alcune come combattenti armate hanno scelto di custodire in silenzio la propria memoria. Stime ufficiali, mai confermate attestano siano state 35 mila. Staffette partigiane sono state Nilde Iotti, prima donna dell’Italia repubblicana a ricoprire la presidenza della Camera dei deputati e Tina Anselmi, fra l’altro presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulla loggia massonica P2 di Licio Gelli, il burattinaio di molti dei crimini italiani.
Una guerra dall’atmosfera greve, cupa, dagli stati emotivi tesi, nati dalle troppe offese patite e dai traumi profondi. Di violenze ingovernabili, impulsive, spontanee, di linciaggi collettivi, di vendette private e programmate da organismi interni della lotta.
Una guerra dunque di scelte estreme, da leggere come costo alto della pace. È questo l’aspetto infido della guerra civile in cui accanto ai nemici riconoscibili – fascisti e nazisti- si insinuano quelli occulti, spie, collaborazionisti, fiancheggiatori, torturatori che produce una violenza riparatrice rancorosa, ma anche catartica che vorrebbe così riparare a una dittatura ingiusta in cui paradossalmente, come scrive Primo Levi, il rapporto tra vittima e carnefice è assimilabile, perché «i due sono nella stessa trappola, malgrado un segno li distanzi: è l’oppressore, lui solo che l’ha approntata». Questa, la cifra dell’indistinzione.
Il prezioso dono dell’antifascismo
Una guerra resistenziale che è stata -ed è- la base fondante della nostra identità nazionale e il carattere unificante dell’Europa, che ci ha lasciato il prezioso dono dell’antifascismo.
I fascisti dei nostri giorni farebbero bene a dare seguito all’insegnamento del loro padre nobile Gianfranco Fini che al Congresso di Fiuggi ha condannato il nazifascismo.
Da non dimenticare le parole senza tempo di quell’eretico corsaro che è stato Pier Paolo Pasolini:
“L’Italia sta marcendo in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo: prestarsi in qualche modo a contribuire a questa marcescenza è, ora, il fascismo. Essere laici, liberali, non significa nulla, quando manca quella forza morale che riesca a vincere la tentazione di essere partecipi a un mondo che apparentemente funziona, con le sue leggi allettanti e crudeli.
Non occorre essere forti per affrontare il fascismo nelle sue forme pazzesche e ridicole: occorre essere fortissimi per affrontare il fascismo come normalità, come codificazione direi allegra, mondana, socialmente eletta, del fondo brutalmente egoista di una società” (Fascisti: padri e figli, Vie Nuove n.36 a., XVII, 6 settembre 1962).
(In foto “Partigiane e partigiani, Liberazione di Firenze”)